Tratto da: Progetto YEAH
“Una delle principali sfide affrontate dalle persone con disabilità nel contesto lavorativo è l’accessibilità in tutte le diverse declinazioni a cominciare da quella digitale.
L’accessibilità digitale
L’accessibilità digitale si riferisce alla progettazione e allo sviluppo di sistemi, piattaforme, siti web, applicazioni e documenti digitali in modo che siano facilmente utilizzabili da tutte le persone, comprese quelle con disabilità. Ciò significa che il contenuto e le funzionalità digitali devono essere accessibili attraverso una varietà di dispositivi e modalità di accesso. La tecnologia ha il potenziale per abbattere molte di queste barriere. L’uso di software e dispositivi non solo assistivi ma anche “adattivi”. Ci riferiamo a quelle patologie, come il Parkinson ed i parkinsonismi, che alterano in modo importante le varie competenze non solo su un piano oggettivo ma anche temporale a causa delle fluttuazioni causate dalla farmacodinamica dei medicinali.
Ci sono molti benefici dell’Accessibilità Digitale nello Smart Working:
– Uguaglianza di Accesso: L’accessibilità digitale garantisce che tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro abilità, abbiano un accesso uguale alle risorse digitali necessarie per lo smart working;
– Migliora la Produttività: Gli strumenti digitali accessibili consentono alle persone con disabilità di svolgere le loro mansioni in modo più efficiente, aumentando la loro produttività;
– Promuove l’Inclusione: L’accessibilità digitale crea un ambiente di lavoro inclusivo in cui le persone con disabilità possono contribuire appieno alle attività aziendali;
– Conforma alla Legge: In molte giurisdizioni, ci sono leggi che richiedono l’accessibilità digitale per garantire i diritti delle persone con disabilità. Rendere accessibili i propri strumenti e le proprie risorse digitali aiuta a rispettare queste leggi.
La flessibilità nel lavoro in smart working
Lo smart working offre una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Questa flessibilità è particolarmente preziosa per le persone con disabilità che possono dover gestire le proprie esigenze di salute o spostarsi con difficoltà. Grazie allo smart working, possono pianificare le proprie attività lavorative in base alle loro esigenze personali e fisiche, senza però tralasciare le interazioni faccia a faccia offrono una gamma di vantaggi unici. Essere in grado di scambiare sguardi, gesti e sorrisi crea connessioni emotive che possono essere difficili da replicare attraverso uno schermo. Le conversazioni spontanee alla macchinetta del caffè o durante la pausa pranzo spesso portano a idee innovative e alla creazione di un senso di appartenenza a un team. La socializzazione è essenziale per il benessere emotivo. Per le persone con disabilità, che possono già affrontare sfide legate all’isolamento sociale, l’opportunità di interagire con i colleghi può fare la differenza tra sentirsi parte di una comunità e sentirsi emarginati.
Riduzione delle Barriere Fisiche
Le persone con disabilità possono affrontare sfide legate alle barriere architettoniche nei luoghi di lavoro tradizionali. Lo smart working può eliminare queste barriere fisiche, consentendo alle persone di lavorare da ambienti che hanno già adattato alle loro esigenze. Le persone con disabilità sensoriali o neurodivergenti possono avere bisogno di un ambiente di lavoro tranquillo e privo di distrazioni. Lo smart working permette loro di creare un ambiente adatto per concentrarsi, migliorando la loro produttività.
L’importanza della formazione e dell’inclusione
Perché lo smart working sia veramente inclusivo, è necessario investire nella formazione e nell’educazione. I datori di lavoro dovrebbero fornire risorse per aiutare i dipendenti con disabilità a sfruttare appieno le tecnologie e le piattaforme virtuali. Inoltre, l’inclusione nei processi decisionali aziendali è fondamentale per garantire che le esigenze delle persone con disabilità siano prese in considerazione. La formazione è il primo passo cruciale per garantire che tutti i dipendenti, indipendentemente dalla loro abilità, possano adattarsi ed eccellere nello smart working. Le organizzazioni dovrebbero investire nella formazione di base su come utilizzare le tecnologie digitali, le piattaforme di comunicazione e i software di collaborazione. Inoltre, è importante fornire formazione specifica per l’accessibilità digitale, in modo che tutti possano utilizzare gli strumenti digitali in modo efficace.
Non servono fazioni tra chi approva o disapprova lo smartworking, ma unire il meglio di entrambi i mondi è la strada da percorrere. Molti lavoratori con disabilità non desiderano tornare completamente all’ufficio tradizionale, ma cercano un equilibrio tra lo smart working e il lavoro in presenza. Questo approccio ibrido potrebbe consentire di godere dei vantaggi dell’interazione faccia a faccia senza rinunciare alla flessibilità dello smart working. La chiave sta nell’offrire opzioni personalizzate per i lavoratori con disabilità. Consentire loro di scegliere la modalità di lavoro che meglio si adatta alle loro esigenze individuali è fondamentale per garantire che possano prosperare sia professionalmente che socialmente.”
Prevenire
5.490 visualizzazioni 15 dic 2022 CAGLIARI
Cortometraggio scritto, diretto, interpretato, prodotto dai fisioterapisti Mattia Tronci (Linkedin) e Mauro Usala della Riabilitazione dell’ARNAS Brotzu di Cagliari. E’ una storia di lotta e di convivenza in cui, immaginando una giornata tipo di una persona con la Malattia di Parkinson, lo scopo è quello di dare qualche consiglio pratico su come affrontarla.
Cosa vuol dire essere un caregiver in questi anni così difficili, in un paese come l’Italia nel quale spesso la cura e la prossimità ai nostri amici o ai nostri cari che si ammalano sono delegate alla volontà e alla disponibilità del singolo individuo?
Non esiste un termine italiano per tradurre caregiver: il dizionario ci propone badante, accompagnatore, infermiere. Ma tutti noi sappiamo che essere caregiver vuol dire tutte queste cose e molto di più.
“To care” vuol dire essere solidale, avere qualcuno a cuore; giver vuol dire donatore, persona generosa.
Ed ecco che i caregiver sono persone generose che hanno a cuore altre persone.
Al contempo, essere caregiver di una persona con Parkinson e parkinsonismi – in Italia – comporta l’acquisizione e l’aggiornamento costante di:
- nozioni scientifiche: neurologia, biologia, nutrizione, farmacologia. infermieristica, psicologia
- nozioni tecnologiche: telemedicina, monitoraggio a distanza, dispositivi indossabili, ausilii
- aspetti legali, burocratici ed advocacy (riconoscimento dei diritti)
Un mix complesso che spesso va oltre l’amicizia, i legami di parentela, l’amore profondo.
Care by gender – La cura specifica
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“La personalizzazione della terapia con levodopa comporta il suggerimento di impostare dosi del 25% circa più basse nelle donne”. Dott.ssa Manuela Contin, farmacologo, esperta in neurofarmacologia applicata |
Uno studio condotto su 500 persone – 308 maschi e 192 femmine – affette da Parkinson e parkinsonismi ha confermato che “… il sesso influenza in maniera significativa le concentrazioni ematiche di levodopa, abbiamo trovato una biodisponibilità, ossia una quantità, più alta nelle donne. Quindi le pazienti possono assumere un dosaggio inferiore di levodopa — precisa Calandra Buonaura —. Questo esito è molto importante perché la possibilità di sviluppare effetti avversi da levodopa, in particolare le discinesie, i movimenti involontari delle braccia, delle gambe e a volte anche del tronco, dipende dalle dosi del farmaco, pertanto è possibile procedere a una terapia personalizzata che, tenendo conto di questa differenza, permetta di ridurre le dosi di levodopa nelle donne fin dalle prime fasi di malattia con la finalità di ridurre la comparsa a lungo termine delle discinesie, ottenendo nell’immediato Io stesso effetto motorio”. Sulle ricadute pratiche si sofferma Manuela Contin, farmacologo, esperta in neurofarmacologia applicata: “La personalizzazione della terapia con levodopa comporta il suggerimento di impostare dosi del 25% circa più basse nelle donne”. Ma da che cosa dipende questa reazione così diversa tra i sessi? “Il meccanismo alla base di questa differenza nella biodisponibilità di levodopa fra uomini e donne non è noto — risponde il Professor Cortellli —, nel nostro studio abbiamo dimostrato che non dipende da fattori come altezza o differenze nel peso corporeo. Una delle possibilità sono le differenze fra i generi nel percorso del metabolismo della levodopa. E tutto questo indica sempre di più la necessità di una medicina di genere”. |
Approfondimenti: |
La scala Schwab e England ADL (Activities of Daily Living) è un metodo per valutare le capacità delle persone con mobilità ridotta. La scala utilizza percentuali per rappresentare quanto sforzo e la dipendenza da altre persone hanno bisogno per completare le faccende quotidiane. Il rating può essere dato da un professionista o dalla persona sottoposta a test.
Unified Parkinson’s Disease Rating Scale
La valutazione è comprensiva di sei parti:
- Parte I: valutazione clinica dei seguenti parametri dello stato mentale, del comportamento e dell’umore
- deterioramento intellettuale
- disturbo del pensiero
- depressione
- motivazione, iniziativa
- Parte II: autovalutazione da parte del paziente delle seguenti attività quotidiane
- parlare
- deglutire
- capacità di salivazione
- scrivere
- tagliare il cibo e sorreggere il cucchiaio
- vestirsi
- igiene personale
- frequenza delle cadute (non in relazione con il FREEZING)
- camminare
- Freezing
- tremore
- disturbi sensoriali relativi alla malattia
- Parte III: valutazione clinica delle seguenti capacità motorie
- capacità di parlare
- espressività/mimica facciale
- tremore a riposo
- tremore posturale della mano
- rigidità
- la sensibilità delle dita ( il paziente tocca il pollice con l’indice e in successione rapida con le altre dita)
- mobilità della mano (il paziente apre e chiude la mano velocemente e con costanza)
- movimenti rapidi e alterni della mano (pronazione-supinazione, verticale-orizzontale)
- agilità delle gambe
- abilità nell’alzarsi da una sedia
- postura
- tipologia di cammino
- stabilità posturale
- bradicinesia e ipocinesia
- Parte IV: analisi clinica delle complicazioni della malattia (verifica settimanale)
- discinesie
- fluttuazioni cliniche
- altre complicazioni
- Parte V: valutazione prognostica del grado di avanzamento e gravità della malattia secondo la scala di Hoehn e Yahr
- Parte VI: valutazione della disabilità secondo la scala di autonomia di Schwab and England
La stadizione “Hoehn e Yahr” è stata originariamente pubblicata nel 1967 sulla rivista Neurology da Margaret Hoehn e Melvin Yahr e comprendeva gli stadi da 1 a 5. Nel 1983 fu introdotta una modifica della scala originale di Hoehn e Yahr. Questa scala è usata insieme alla scala unificata di valutazione della malattia del Parkinson (UPDRS).
Stadio I: interessamento unilaterale con deficit funzionale minimo o assente. Questo primo stadio è caratterizzato dalla comparsa di tremore a carico degli arti superiori a riposo. Circa un anno prima si possono manifestare altri sintomi, come, per esempio, il dolore. Esaminando attentamente l’individuo, risulta evidente una leggera rigidità, la presenza di acinesia e la compromissione dei movimenti alternati rapidi e della destrezza delle dita. Si osserva un rallentamento dei movimenti ed un peggioramento nella ripetizione. In particolare, durante la scrittura, si manifestano alcune alterazioni tipo tratto tremolante, difficoltà nei tratti rotondeggianti e micrografia. Inoltre, spesso è presente ipomimia faccialee, alcune volte, si riscontra seborrea frontale.
Stadio II: interessamento bilaterale o assiale senza disturbo dell’equilibrio. Il paziente con malattia di Parkinson assume una postura fissa, in cui il tronco, le anche, le ginocchia e le caviglie sono flessi lievemente. Inoltre, tutti i movimenti tendono a rallentare in maniera graduale, determinando la cosiddetta bradicinesia. Spesso, i pazienti manifestano una depressione reattiva.
Stadio III:si manifestano i primi segni di instabilità posturale, associati a deficit funzionale che rende ancora possibile l’esecuzione di alcuni lavori. Inizia la compromissione dell’andatura con rallentamento della deambulazione, passo più affrettato e corto e aumento della bradicinesia. Il paziente è comunque in grado di svolgere una vita indipendente e l’invalidità è lieve-moderata.
Stadio IV: la malattia diventa severamente invalidante; il paziente è ancora in grado di camminare ed assumere la posizione ere ma con grande difficoltà e quasi sempre con necessità di assistenza per lo svolgimento delle normali attività quotidiane. In questo quarto stadio, il paziente affetto da morbo di Parkinson ha frequenti cadute e i compiti che richiedono un fine controllo motorio risultano difficili o impossibili.
Stadio V: coincide con lo stadio avanzato del morbo di Parkinson. La deambulazione risulta impossibile e il paziente non può più mantenere la posizione eretta e, quando è a letto, in posizione supina ed immobile, ha il capo leggermente flesso sul tronco. Inoltre, fatica a cibarsi a causa della ridotta deglutizione spontanea e spesso compare disidratazione e cachessia. Inoltre, la situazione risulta maggiormente complicata dal pericolo di infezione per ridotta escursione toracica, inefficacia del riflesso della tosse e vescica neurologica. Ovviamente, questo quadro clinico si riferisce ad un individuo malato di Parkinson non sottoposto ad alcun tipo di trattamento.WP Mail SMTP
L’intervista
Citazioni
”I malati di Parkinson non sono organismi che ingurgitano levodopa o dopaminoagonisti, ma persone dotate di spirito e mente. La qualita’ della loro vita dipende da cosa sapranno fare di questo colpo della sorte”.
Il libro
Titolo: “Ogni giorno vale una vita”
Autore: Lucilla Bossi
pagg. 156, 16 euro
Mondadori editore
Poi accade che una sera a cena, arrotolando meccanicamente gli spaghetti, s’accorga che la mano s’inceppa, qualcosa non va.
È il 1986, Lucilla Bossi ha 36 anni, un marito che la lascerà di lì a poco, dolore nel dolore, e il figlio Fabrizio che adora. Una spallata e la sensazione è cancellata. Ma quel black out tra testa e corpo, all’apparenza insignificante, si ripete mese dopo mese, anno dopo anno con maggior frequenza. Dopo l’inutile pellegrinaggio negli studi di ortopedici specializzati, approda nelle sale di un neurologo che emette la diagnosi in pochi minuti: Parkinson idiopatico giovanile. Gli anni sono 39, una vita davanti con buona parte di relativa giovinezza.
«Ho reagito come un animale selvatico preso in trappola – confessa Lucilla – e in seguito agli effetti collaterali di un primo tentativo di cura che mi fece stare malissimo, rifiutati qualunque terapia». Troppo grande il divario tra il prima e il dopo, tra la creatura piena di vita e l’invalida che sembrava condannata a diventare.
Una cupa disperazione che sembra non aver fine, finché un giorno il plaid entro il quale si arrotola sul divano di casa, nascondendosi al mondo, viene gettato. Lucilla trova nella propria profonda fede cattolica un punto di riferimento. Nulla a che vedere tuttavia con l’attesa di un miracolo, piuttosto con la riscoperta della propria autocoscienza, della realtà invisibile che l’aiuta ad andare incontro alla malattia. È il «conosci te stesso» scritto sul tempio dell’oracolo di Delfi che si materializza, sono le esortazioni che via via hanno dato linfa nei secoli all’agire dell’uomo, da Socrate, a Platone, a Sant’Agostino sino a Kant e che tanto permea oggi, come allora, le culture orientali. Non a caso l’autrice fa riferimento a un significativo episodio accaduto durante un viaggio in India.
La vera forza di Lucilla Bossi sta nell‘aver rifiutato di trasformare una malattia cronica neurodegenerativa e progressivamente invalidante nella monade entro la quale rinchiudersi:
«Uno dei fattori che mi ha spinto a scrivere è l’universalmente diffusa e deleteria metafora del Parkinson quale nemico e della terapia come guerra». Un’eroica battaglia che finisce tuttavia per far perdere al paziente la capacità di interessarsi al mondo, avendo nella malattia la ragione e l’interesse principale della vita.
L’autrice ci consegna un diario di vita quotidiana che ha la forza di guardare al male, senza negarlo, ma con occhi nuovi e senza prendere per oro colato «qualunque baggianata» le proponessero sul Parkinson, sin dal giorno in cui dà del matto al medico che le chiede se fa fatica a vestirsi e anche quando il suo armonico corpo d’atleta si riduce a «39 chili di pelle e ossa». Una vita intensa, fitta di viaggi e d’esperienze che mai ha conosciuto a priori la rinuncia per via del Male: si fa il possibile e, se occorre, si va oltre. Oltre, per esempio, le proprie inibizioni, oltre i pregiudizi della gente che osserva i tuoi movimenti scomposti. Prima vorresti scomparire, ma poi capisci che è tempo d’essere te stessa.
Giorni lieti e tristi, non solo per via della malattia, di tenacia, di speranza, di amori, di delusioni e anche il giorno perfetto dei due interventi del 16 giugno 1998 che si riassumono in un acronimo di tre lettere: DBS ovvero Deep Brain Stimulation, stimolazione cerebrale profonda, che consente a Lucilla di essere la donna attiva che è oggi, alla guida, in qualità di presidente, della Confederazione Parkinson Italia: «Ogni giorno da normale è per me un giorno regalato e nessuno è mai banale perché so, per averla persa e ricevuta una seconda volta, che dono immenso è la vita».”. Fonte: Sole24